mercoledì 5 settembre 2012

SETI, quell'oscuro silenzio


Da oltre cinquant’anni, la ricerca di civiltà extraterrestri non ha ancora fornito una prova scientifica della loro esistenza. Per questo motivo, non sappiamo neanche se la vita, a qualsiasi livello, esista effettivamente al di là del nostro pianeta. La ricerca di civiltà aliene, anche se esse sono là fuori da qualche parte nella nostra  galassia o magari in altre galassie, è un progetto a lungo termine che richiederà ancora anni se non addirittura secoli. Tuttavia, le nuove strategie di ricerca, accompagnate dal progresso tecnologico e dalla costruzione di nuovi e più sofisticati strumenti di indagine, indicano che ci sono buone ragioni per ritenere che il successo di un “primo contatto” possa avverarsi entro qualche decennio. 

Il SETI è stato da sempre considerato un progetto scientifico a parte nell’ambito della ricerca astronomica. Nonostante le ardue imprese degli ultimi cinquant’anni, il “silenzio radio” potrebbe implicare che gli extraterrestri non utilizzino la banda radio dello spettro elettromagnetico per effettuare comunicazioni interstellari. Oggi, la speranza è quella di credere che qualcuno là fuori stia già trasmettendo e che i segnali siano diretti proprio verso il Sistema Solare. C’è da dire, però, che il programma SETI è legato al concetto di antropocentrismo, cioè la tendenza di considerare la nostra civiltà del 21° secolo come modello di riferimento a cui una eventuale civiltà extraterrestre potrebbe assomigliare. Infatti, partendo dal concetto che un possibile fascio di segnali artificiali sia diretto verso la Terra e considerando che una civiltà aliena si trovi, ad esempio, a circa 500 anni-luce, diciamo vicina per gli standard SETI, i segnali sarebbero già arrivati sulla la Terra nel 1500 cioè molto tempo prima che la nostra civiltà fosse in grado di realizzare opportuni ricevitori elettromagnetici. Insomma, dai primi esperimenti condotti da Frank Drake le attività di ricerca del SETI si sono concentrate e si concentrano tutt'ora nella banda radio, come i recenti progetti ATA, LOFAR e SKA, dove gli astronomi hanno registrato, per così dire, solo un lugubre silenzio. E’ forse giunto il momento di ampliare la ricerca e prendere in considerazione altri metodi? 

Uno degli interrogativi riguarda la possibilità che esseri tecnologicamente avanzati possano inviare nello spazio segnali laser ad impulsi. Questo tipo di approccio potrebbe sembrare arcaico, un pò come quando gli uomini del 18° secolo utilizzavano per comunicare, si fa per dire, la riflessione della luce solare mediante gli specchi oppure i telegrafi apparsi nel 19° secolo per comunicare da una nave ad un’altra. Di fatto, l’idea di utilizzare i segnali luminosi per stabilire un contatto cosmico non è molto vecchia. Verso la metà del 19° secolo, sia il matematico e astronomo tedesco Carl Gauss che l’inventore francese Charles Cros suggerirono l’utilizzo di lanterne e specchi per attirare l’attenzione dei marziani. Oggi, con le tecniche più moderne, diventa affascinante l’idea di utilizzare impulsi laser di estrema intensità che possono essere inviati nello spazio. Di recente, alcuni scienziati del Lawrence Livermore National Laboratory hanno costruito un laser capace di inviare impulsi con una potenza pari a 1000 trilioni di Watt, nonostante gli impulsi siano di breve durata. Lo strumento si chiama Nova e non è certo il puntatore laser che usiamo per le presentazioni in power point. Immaginiamo di installare Nova su uno specchio di 10m e di focalizzare il suo fascio inviandolo nello spazio verso una stella che si trovi ad una distanza di circa 50 anni-luce. Si può calcolare, facilmente, che ogni impulso rilascerà circa 10 fotoni per metro quadrato che arriveranno sulla superficie di una terra aliena. Se confrontiamo questo valore con la luminosità emessa dal Sole in tutte le direzioni, si trova che anche la luce solare può raggiungere la superficie di un esopianeta, seppur distante, con una frequenza di circa 250 milioni di fotoni per secondo. Quest’ultimo valore sembrerebbe sminuire la portata del nostro super laser ma certamente non è così se consideriamo un intervallo di tempo dell’ordine del trilionesimo di secondo quando arriva l’impulso. In altre parole, quel breve impulso laser fornisce 8 fotoni per metro quadrato contro un valore di 0.00025 fotoni per metro quadrato dovuti alla luce solare. Questo vuol dire che per un brevissimo intervallo di tempo, l’impulso laser supera la luminosità del Sole di circa un fattore 30.000. Dunque, cosa fanno i ricercatori del SETI ottico? Essi puntano i loro strumenti verso stelle vicine, in termini di distanza, e contano i fotoni che arrivano durante brevissimi intervalli di tempo, che sono dell’ordine del miliardesimo di secondo. La “pioggia di fotoni” che arriva dalla stella, precedentemente selezionata, causerà un picco, o due, nel conteggio dei fotoni, non più di questo. Se, però, qualche civiltà aliena ha costruito uno strumento simile al nostro e decide di puntarlo nello spazio, potrebbe accadere di registrare dei picchi di intensità nel segnale che stiamo analizzando. Insomma, potremmo avere a che fare con dei veri e propri “space cowboys” che stanno trasmettendo impulsi laser proprio come noi ce li immaginiamo. Sarebbe un modo fantastico di stabilire un contatto cosmico. Questo tipo di esperimenti sono attualmente condotti da diversi ricercatori del SETI e da alcune università. Essi hanno già analizzato alcune centinaia di stelle alla ricerca di impulsi luminosi alieni e i dati sono in corso di elaborazione. Si spera, così, di avere un risultato significativo nei prossimi anni che dia credito a questa tecnica in modo da poterla ottimizzare per i futuri esperimenti. 

Ma nella corsa alla ricerca di ET, c’è anche chi suggerisce metodi alternativi. Secondo lo scienziato Avi Loeb è possibile che eventuali esseri intelligenti siano evoluti al punto tale da aver costruito una rete di illuminazione come quella delle nostre città. Naturalmente, per rivelare una tale luce artificiale è necessario osservare in dettaglio ogni variazione di luminosità proveniente dalla superficie del pianeta man mano che orbita attorno alla sua stella ed in particolare quando si trova durante la fase di ombra. Per fare ciò occorreranno telescopi di futura generazione che abbiano un grande potere esplorativo. Intanto questa tecnica può essere verificata osservando, ad esempio, le luci artificiali del nostro pianeta da un satellite che si trova nelle regioni più estreme del Sistema Solare. E’ stato calcolato che i telescopi attualmente disponibili sono in grado di rivelare la luce di una metropoli come Tokyo dalla distanza a cui si trova la cosiddetta fascia di Kuiper cioè quella regione dello spazio interplanetario in cui si trovano Plutone e altri corpi minori del Sistema Solare. Senza dubbio si tratta di una tecnica molto difficile ma il principio della scienza è quello di trovare un metodo che ci permetta di applicarlo per avere un risultato scientifico. Forse un giorno saremo in grado di rivelare le luci di una città aliena che si trova su un altro mondo? Chi lo sa, non ci resta che essere ottimisti. 

E' anche vero che da circa 70 anni i nostri segnali radio e televisivi si stanno propagando nello spazio alla velocità della luce, non solo ma non abbiamo provato ad inviare tanti messaggi radio verso determinati sistemi stellari. Il tentativo iniziale di Drake basato sul Progetto Ozma era limitato su una scala di distanze molto piccola e il suo geniale messaggio inviato nel 1974 dal radiotelescopio di Arecibo verso l'ammasso stellare M13, che contiene circa 300.000 stelle, causò una serie di polemiche dato che, così facendo, avremmo “avvisato”, per così dire, gli alieni della nostra presenza indicandogli la strada per una eventuale invasione. Ciò risulta alquanto improbabile dato che M13 si trova a circa 25.000 anni-luce e prima che l’eventuale flotta aliena arrivi sulla Terra sarà passato abbastanza tempo che quasi certamente saremo andati via dal pianeta o avremo sviluppato una tecnologia tale da difenderci in maniera adeguata. Ma di quante civiltà aliene dobbiamo preoccuparci? La famosa equazione di Drake ci dà una stima dell’eventuale numero di civiltà extraterrestri nella Via Lattea. Secondo Drake esistono almeno 10 milioni di stelle che possiedono pianeti potenzialmente abitabili, anche se è ancora presto per pensare che abbiamo effettuato una statistica appropriata. Nonostante ciò, le possibilità di trovare tante civiltà aliene nel futuro prossimo sono tali che la necessità di fondare una sorta di “Federazione Unita dei Pianeti”, come nella serie televisiva Star Trek, appare alquanto remota. Nonostante ciò, lo scienziato Stephen Hawking sostiene che “matematicamente” gli alieni esistono ma è meglio evitarli perché sono mostri terribili affamati di esseri umani. Tuttavia, secondo quanto ha dichiarato Jill Tarter, che ha recentemente lasciato la carica di direttore dell'Istituto SETI, gli esseri umani non sono affatto un pasto gradito dagli alieni anche se Hollywood ci mostra il contrario nei film di fantascienza. In una recente conferenza stampa in cui è stata annunciata l’apertura di un sito denominato SETI Live dove, per la prima volta, il pubblico potrà vedere i dati raccolti dai radiotelescopi e aiutare così gli scienziati nella la ricerca di segnali intelligenti provenienti da altri mondi, Tarter, che è stata l’ispiratrice del film "Contact" con Jodie Foster, non è d'accordo con quanto affermato da Hawking. Secondo Tarter, se qualche civiltà intelligente fosse in grado di visitare il nostro pianeta questo vorrebbe dire che gli ET sono dotati di una tecnologia alquanto sofisticata tale da non avere la necessità di fare schiavi, di avere cibo o di colonizzare altri pianeti. Se arrivassero sulla Terra per loro sarebbe una missione atta all’esplorazione di un altro mondo a loro sconosciuto. Inoltre, considerando anche l’età dell'Universo, con ogni probabilità noi non saremo i primi ad essere visitati perciò le nostre paure ci possono arrivare solo guardando, ad esempio, alcuni film come Men in Black, Battleship o Visitors. Insomma, se ci pensiamo un attimo qualora un giorno saremo fortunati perché avremo ricevuto un segnale artificiale dallo spazio, allora potremo imparare tante cose non solo sul loro passato, dato che il segnale impiega un certo tempo per propagarsi, ma anche sul nostro futuro e sulle tecnologie che saremo in grado di sviluppare. Se, invece, ci preoccupiamo del fatto che cercare qualche segnale di origine extraterrestre o mandare nello spazio un segnale di origine terrestre possa richiamare qualche civiltà aliena ostile verso la conquista della Terra, allora forse è meglio mantenere il silenzio e stare tranquilli. Ma stare in silenzio e tapparsi le orecchie non sarebbe di grande aiuto alla ricerca.

Una delle principali missioni del SETI, e cioè quella di trovare altre terre, è diventata una realtà. Ben presto, forse entro cinque o dieci anni, gli astronomi avranno trovato una 'nuova Terra' e il passo successivo sarà quello di studiare la sua atmosfera allo scopo di trovare qualche traccia di vita analizzando lo spettro e le sue componenti, come l’ossigeno o il metano. Quanto sarà la durata del giorno? Esisteranno oceani e continenti? A tal proposito, rivelare l’acqua sulla superficie di un pianeta extrasolare sta diventando una priorità dato che, almeno per quanto ne sappiamo, essa rappresenta un elemento essenziale per l’abitabilità di un pianeta. Uno studio recente ha esaminato la possibilità che la riflettività della superficie di un mondo alieno possa essere interpretata come una chiara evidenza della presenza di oceani. Gli scienziati che si occupano di scienze planetarie stanno sviluppando tutta una serie di metodi per rivelare la presenza di acqua sulla superficie di un esopianeta, visto ormai il grande numero di oggetti che orbitano nella cosiddetta “zona abitabile” dove si ritiene che l’acqua possa esistere allo stato liquido. Uno di questi metodi si basa, appunto, sulla riflessione speculare, nota anche come “luccichio” (glint), simile a quello dovuto alla riflessione della luce solare sulla superficie di un lago o di un mare. Ora, la presenza di oceani sulla superficie di un pianeta alieno potrebbe determinare una riflettività apparente, nota come albedo. Secondo questo metodo, non è necessario osservare l’intero disco del pianeta, cioè quando esso riflette la luce in maniera simile a quella che viene riflessa dal nostro satellite naturale durante la fase di Luna piena, bensì è possibile rivelare la riflettività della superficie anche durante una fase parziale della sua orbita, per esempio durante la fase crescente. In questo caso ci si aspetta, secondo alcuni calcoli eseguiti da Nicolas Cowan della Northwestern University, che l’albedo aumenti, un segnale che potrebbe indicare la reale presenza di acqua liquida sulla superficie del pianeta. Ora, sebbene l’esistenza di pianeti extrasolari e sistemi planetari extraterrestri sia ormai un fenomeno comune nella Via Lattea mentre invece l’evoluzione della vita intelligente è un fenomeno raro, almeno nella nostra galassia, la probabilità di ascoltare un segnale proveniente da qualche civiltà aliena sarà così bassa che il Sole avrà tutto il tempo di diventare una gigante rossa, cioè tra circa cinque miliardi di anni, quando avrà distrutto il nostro pianeta. Questa è la conclusione di uno studio sulla ipotesi di Ward and Brownlee's Rare Earth ad opera di Duncan Forgan Ken Rice per cui essi hanno costruito il modello di una galassia virtuale che simula quella reale in cui viviamo. Nel loro modello, la vita intelligente si forma solo nei pianeti di tipo terrestre, così come accade nell’ipotesi Rare Earth. Se le simulazioni di Forgan e Rice sembrano limitate e in un certo modo non sembrano realistiche, esse comunque danno delle speranze per la ricerca SETI rispetto ai calcoli che derivano dall’equazione di Drake o dal paradosso di Fermi. Secondo Forgan, l’equazione di Drake non soddisfa alcuni parametri perché dipende da una stima media di alcune variabili, come il tasso di formazione stellare, non tiene conto degli effetti fisico-chimici della storia evolutiva della galassia o della dipendenza temporale dei suoi termini. L’equazione è soggetta ad una serie di critiche per le stime numeriche relative al numero di civiltà intelligenti che possono comunicare con la Terra, considerando le ipotesi ottimistiche e pessimistiche, che vanno da qualche centinaio di migliaia a qualche milione. Forgan ha sviluppato una simulazione numerica della nostra galassia che, basandosi sulla migliore stima di alcuni parametri astrofisici, come il tasso di formazione stellare, la funzione di massa iniziale, l’intervallo di tempo di una stella in sequenza principale, porta effettivamente ad una galassia formata da qualche miliardo di stelle, ognuna con le rispettive proprietà (massa, luminosità, etc.) selezionate in maniera statistica. Vengono quindi generati i sistemi planetari e quei pianeti dove la stessa vita evolve in accordo alle ipotesi sulla sua origine. Il modello genera una galassia che è statisticamente rappresentativa della Via Lattea. Nel modello di Forgan è permessa la vita animale, l’unica da cui si possono sviluppare esseri intelligenti, che può esistere sui pianeti che hanno masse comprese tra 0,5-2 volte la massa terrestre, se la massa della stella è compresa tra 0,5-1,5 volte la massa del Sole, se il pianeta ha almeno una luna, in modo tale da permettere la stabilità dell’asse di rotazione del pianeta, e se la stella possiede almeno un pianeta massiccio che ha una massa di circa dieci volte la massa terrestre e si trova in una orbita esterna. La buona notizia, almeno per il SETI, è che una galassia come la nostra può ospitare centinaia di civiltà intelligenti mentre la cattiva notizia è che durante l’intervallo di tempo in cui una civiltà aliena può comunicare, cioè tra quando essa diviene tecnologicamente avanzata e quando il pianeta finisce per evaporare in seguito all’evoluzione stellare della stella, si osserva che non esistono, almeno in gran parte delle simulazioni, altre civiltà intelligenti, o se esistono sono troppo distanti. Dunque la conclusione è che noi stessi, o qualche altra civiltà aliena, potremmo essere davvero soli nell’Universo. Man mano che il telescopio spaziale Kepler scopre sempre più pianeti simili alla Terra, sembra quasi naturale che gli astronomi del SETI comincino a dare un'occhiata a questo primo catalogo di candidati in modo da sintonizzare i radiotelescopi verso questi sistemi planetari. Ecco i primi risultati preliminari. Finora sono stati trovati alcuni segnali interessanti che vengono denominati con la sigla Kepler Object of Interest (KOI). Nonostante ciò, spesso questi segnali vengono spiegati in termini di interferenze terrestri altri, però, presentano delle caratteristiche tali da poter essere associati a segnali artificiali di origine extraterrestre: è il caso di KOI 817 e KOI 812. Si tratta di due segnali a banda stretta, così come ci si aspetta se un segnale è di tipo artificiale, la cui frequenza varia periodicamente, a causa dell’effetto Doppler dovuto al moto della sorgente rispetto alla posizione del radiotelescopio terrestre. Dunque, se si trova un segnale con queste proprietà e si è certi che non si tratti d’interferenza, possiamo dire di avere a che fare con un segnale artificiale di origine extraterrestre, almeno si parla di un buon candidato. Comunque sia, si tratta dei primi risultati di una lunga lista di osservazioni e molti altri ancora saranno elaborati nel corso dei prossimi mesi. Tutti i segnali elaborati finora si possono scaricare da questo link.
Siamo, dunque, soli nell’Universo? Per rispondere ad una delle grandi domande della scienza, forse dovremmo cominciare ad esplorare meglio il Sistema Solare per verificare se esistono forme di vita aliena sottoforma di microrganismi dalle forme più bizzarre, come ad esempio gli estremofili. Certamente, il Sistema Solare è stato interessato da almeno un centinaio di missioni spaziali sin dagli anni ’60, la maggior parte realizzate dalla NASA, dall’ex Unione Sovietica e dall’ESA a cui si stanno unendo di recente altri paesi come la Cina e il Giappone. Intanto, se dal rover Curiosity non arriveranno evidenze di forme di vita elementari, passate o presenti, consistenti con la vita sulla Terra, questo sarà senza dubbio un risultato molto interessante. La domanda è: E’ probabile che un meteorite abbia portato la vita sulla Terra da Marte, o viceversa? Ma se troveremo una seconda forma di vita su Marte, allora questa sarà la notizia di tutti i tempi. In realtà non sappiamo come è nata la vita sulla Terra né possiamo pensare di calcolare la probabilità che la vita si sviluppi da qualche altra parte nel cosmo. Ciò vuol dire che la vita sul nostro pianeta potrebbe essere un caso meraviglioso ed improbabile allo stesso tempo e perciò la nostra civiltà potrebbe essere l’unica nell’Universo. Se, al contrario, scopriremo che la vita è iniziata rapidamente ed in maniera naturale allora dovranno esistere le giuste condizioni perché essa si sviluppi in qualche altra parte dell’Universo. Naturalmente non lo sappiamo ma vogliamo scoprirlo. Infatti, la scoperta di una seconda forma di vita potrebbe aprire la possibilità straordinaria che la vita esista in tutti quei pianeti extrasolari che stiamo man mano identificando. Infine, secondo alcuni scienziati, Marte non sarà la giusta scommessa né ci si aspetta una probabilità superiore al 1% di trovare forme di vita elementari. Comunque sia, gli scienziati ritengono di avere buone probabilità di scoprire qualcosa entro la fine di questo secolo. Nel frattempo non ci resta che comportarsi come il naufrago che scrive il suo messaggio in una bottiglia lanciata alla deriva nell’oceano sperando che qualcuno la trovi. E proprio una cosa simile è stata fatta 35 anni fa dalla NASA quando vennero lanciate le sonde Voyager 2 e 16 giorni dopo la sua gemella Voyager 1 verso l’esplorazione dei pianeti esterni del Sistema Solare. Ancora oggi le due sonde stanno viaggiando verso lo spazio interstellare e si trovano al momento ad una distanza di 15 miliardi di chilometri (Voyager 2) e 18 miliardi di chilometri (Voyager 1). Gli scienziati ritengono che le due sonde avranno ancora abbastanza potenza elettrica per continuare ad inviare dati sulla Terra almeno fino al 2020-2025. Ricordiamo che a bordo di ogni sonda è stata posta una placca in oro che riporta alcuni simboli allo scopo di comunicare un messaggio della storia del nostro pianeta ad eventuali civiltà extraterrestri. 


Ma ora spingiamo oltre e chiediamoci se l’esistenza di altre civiltà intelligenti si possa estendere al di fuori del nostro Universo e cioè se la vita può esistere, in qualche modo, nel multiverso. La necessità di rispondere a questa domanda nasce dal problema di capire il significato più intrinseco della costante cosmologica per cui alcuni scienziati, come Steven Weinberg Martin Rees, hanno preso in considerazione il cosiddetto principio antropico. Infatti, se consideriamo che il nostro Universo è uno dei tanti infiniti universi che sono disconnessi dal nostro, ognuno dei quali è caratterizzato da proprie costanti della natura e dove l’energia del vuoto assume valori diversi, ci si chiede quale dovrebbe essere il valore della costante cosmologica affinchè in uno dei tanti universi evolva la vita. Di recente, Alejandro Jenkins dell'Università Statale della Florida Gilad Perez del Weizmann Institute of Science in Israele, hanno introdotto una ipotesi provocativa in base alla quale l’esistenza di forme di vita intelligenti, cioè capaci di studiare i fenomeni naturali, dipenda da un preciso insieme di condizioni fisiche adatte alla vita stessa. Alcune conseguenze del modello inflazionistico suggeriscono che il nostro Universo è uno dei tanti che è emerso dal vuoto primordiale. Anche se non abbiamo modo di vedere gli altri universi è plausibile ritenere che in essi esistano proprie leggi fisiche. Dunque non sarebbe un mistero il fatto che noi viviamo in un universo, diciamo, “raro” dove le condizioni fisiche sono quelle ideali per permettere l’esistenza della vita. E’ un pò come cercare la vita su altri mondi alieni e chiedersi come mai sul nostro pianeta esistano le condizioni giuste per lo sviluppo di forme organiche. In questo senso, Jenkins e Perez hanno provato a modificare le leggi fondamentali della fisica “togliendo”, per così dire, l’elettromagnetismo o la gravità per vedere cosa succede. In alcuni casi i risultati permettono, sia pure ipoteticamente e con condizioni decisamente differenti da quelle presenti nel nostro Universo, la possibilità che la vita possa esistere in altri universi e con complicate e differenti strutture fisiche. Il fatto poi di capire che tipo di vita ci dobbiamo aspettare è un’altra storia. Questo ci porta ad un altro problema che riguarda l’utilità del principio antropico quando pensiamo a come potrebbero essere le eventuali forme di vita nel multiverso. Naturalmente si tratta di idee speculative che i cosmologi cercano di sviluppare per avere una visione più grande così come l’idea, in particolare, dell’esistenza di universi paralleli risulta a molti scienziati alquanto affascinante. Dunque, ritornando alla costante cosmologica, possiamo concludere dicendo che gli universi in cui l’energia del vuoto è molto grande sono comuni ma si espandono troppo rapidamente per formare stelle, pianeti e la stessa vita, mentre invece gli universi il cui valore dell’energia del vuoto è troppo piccolo sarebbero rari. L’Universo in cui viviamo potrebbe essere quello ottimale dove la costante cosmologica assume un valore compatibile con quello attuale anche se le considerazioni teoriche di Jenkins e Perez suggeriscono che il nostro Universo non sia abbastanza “regolato” da permettere l’esistenza di tante forme di vita intelligenti come invece si è creduto in precedenza.    





Questo post parteciperà all’edizione unificata dei Carnevali Scientifici di Chimica e Fisica del 25 settembre 2012, avente per tema "Cercando tracce di vita nell'Universo", che è anche il titolo del 4° Congresso IAA (International Academy of Astronautics). Troverete tutte le informazioni e le modalità per partecipare al simposio internazionale, 25-28 settembre 2012, sul sito web dedicato di San Marino Scienza. L’edizione unificata dei Carnevali Scientifici sarà presentata, all’interno del Congresso, dal presidente Franco Rosso dell’Associazione Culturale Chimicare nel pomeriggio del 25 settembre.

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