giovedì 5 giugno 2014

SETI, entro vent'anni il 'primo' contatto

La domanda se siamo soli nell’Universo sta diventando ormai molto vecchia. Esistono delle storie su questo argomento che risalgono persino agli antichi greci e sembra difficile credere che anche i primi esseri umani comparsi sul nostro pianeta non abbiano mai volto lo sguardo verso il cielo chiedendosi se esistono altri esseri come loro da qualche parte nello spazio. Rispetto ai nostri antenati, oggi abbiamo una tecnologia sufficientemente avanzata e adeguata che ci permette di affrontare il problema secondo il metodo scientifico. Dunque, trovare che esistono intelligenze extraterrestri potrebbe definire il nostro posto nello spazio cosmico. Inoltre, una tale scoperta completerebbe la cosiddetta rivoluzione copernicana. Circa 470 anni fa, le meticolose osservazioni del cielo ed il ragionamento scientifico ci portarono a comprendere il nostro ruolo nell’Universo. Oggi, lo scopo della ricerca SETI (Search for Extra Terrestrial Intelligence) è quello di comprendere in quale piano intellettivo noi esseri umani ci poniamo rispetto ad eventuali esseri intelligenti nell’Universo. Insomma, le nostre capacità intellettive sono uniche o sono semplicemente le sole che esistono tra tante altre?


Così come verso la fine del XV secolo le grandi navi e l’invenzione del compasso segnarono l’inizio della grande era delle esplorazioni terrestri, analogamente l’era della tecnologia moderna, unita ad una maggiore comprensione della struttura dell’Universo su larga scala che capivamo qualche decennio fa, ci fornisce la possibilità di scoprire la vita altrove nello spazio. Il programma SETI è sinonimo di esplorazione e le conseguenze dell’esplorazione sono spesso profondamente illuminanti e di una utilità inaspettata. Sappiamo che noi esseri umani siamo speciali, ma siamo unici? Questa è la domanda a cui il SETI spera di rispondere.
                    
Perchè pensiamo che la vita esista altrove

Particolare struttura biologica del meteorite ALH 84001
Ad oggi, non abbiamo una evidenza certa dell’esistenza di vita aliena al di fuori della Terra. Nel 1996, nonostante la notizia dell’esistenza di microbi fossili presenti su un meteorite marziano generò un ampio clamore, oggi gli astrobiologi ne sono poco convinti. Ma se viene chiesto agli stessi astrobiologi cosa ne pensano della vita aliena, se essa sia comune o facilmente esplorabile, la loro risposta è quasi inevitabilmente affermativa. Fino al 1995, sapevamo che non c’era alcun pianeta in orbita su altre stelle, sia esso abitabile o meno, e ci furono una serie di argomentazioni che tali mondi potessero essere alquanto comuni, anche se si trattava solo di speculazioni. Negli ultimi vent’anni, grazie ai dati che ci ha fornito la missione Kepler della NASA, gli astronomi hanno rivelato un esopianeta dopo l’altro. Oggi se ne conoscono oltre quattro mila di cui circa tre mila sono candidati che aspettano di essere analizzati. Le stime indicano che almeno il 70% di tutte le stelle hanno un sistema di pianeti e si stima che il loro numero sia dell’ordine di un trilione, cioè mille miliardi, almeno nella Via Lattea. Ma è importante ricordare che la nostra Galassia è solo una delle 150 miliardi di galassie visibili dai nostri telescopi, ognuna delle quali dotata di propri sistemi planetari. Insomma, si tratta di un numero che va al di là della nostra comprensione. L’obiettivo principale della missione Kepler è quello di determinare quale frazione di questi numerosi sistemi planetari alieni sia costituita da corpi celesti che possano ospitare la vita. Di solito, il 'metro' che ci permette di distinguere se un pianeta sia abitabile o meno è dato dalla presenza di acqua liquida sulla superficie. La maggior parte di questi pianeti potranno essere o troppo freddi o troppo caldi o appartenenti ad una particolare classe, come ad esempio Giove, dove non esiste una vera e propria superficie solida. Le recenti osservazioni di Kepler suggeriscono che una stella su cinque può ospitare un pianeta di tipo terrestre, potenzialmente abitabile. Un tale numero potrebbe diventare più grande di almeno un fattore due o tre e se così fosse vorrebbe dire che la nostra Galassia ospiterebbe, in linea di principio, da 10 a 80 miliardi di corpi celesti simili alla Terra. In altre parole, possiamo dire che esiste un vero e proprio 'ambiente cosmico' adeguato per forme di vita extraterrestre, inclusa la vita intelligente. Un ulteriore dato che è stato elaborato da uno studio recente suggerisce che i mattoni chimici fondamentali della vita, cioè i vari composti del carbonio, come ad esempio gli aminoacidi, che sono presenti in tutti gli organismi terrestri, si formano in maniera naturale e sono abbondanti nel cosmo. I requisiti biologici sono presenti ovunque nello spazio e se da un lato ciò non garantisce che la vita possa evolvere in tutti quei pianeti dove le condizioni fisiche sono simili a quelle presenti sul nostro pianeta, dall’altro ciò induce a pensare che questo processo avvenga in maniera frequente. Se solo su una ogni mille ipotetiche terre si sviluppasse la vita, nella nostra Galassia potrebbero essere presenti decine di milioni di mondi alieni dotati di flora e fauna. Ad ogni modo, il programma SETI rappresenta un insieme di esperimenti che sono stati concepiti per trovare non proprio la vita ma esseri tecnologicamente sviluppati, ossia delle civiltà il cui livello di intelligenza e di sviluppo sia almeno uguale al nostro. A questo punto è spontaneo chiedersi, assumendo che esistano molti mondi alieni che ospitano forme di vita, qual sarà la frazione di questi che potrà evolversi acquisendo le capacità intellettive dell’Homo Sapiens? Certamente è una domanda controversa e allo stesso tempo difficile da rispondere. Così come è stato sottolineato da qualche famoso biologo evoluzionista, tra cui Ernst Mayr e Stephen Jay Gould, la strada che parte da forme di vita pluricellulari, come i trilobiti, per arrivare a noi è estremamente incerta. Per esempio, se l’asteroide che causò l’estinzione dei dinosauri, e di almeno due terzi di tutte le specie terrestri, circa 65 milioni di anni fa, fosse arrivato con 15 minuti di ritardo avrebbe mancato la Terra, implicando così che il percorso evoluzionistico dai mammiferi a noi esseri umani non sarebbe mai stato spiegato. Questo semplice argomento ci fa capire che mentre la vita può essere un fenomeno comune, la vita intelligente può essere molto rara. Tuttavia, alcuni ricercatori hanno dimostrato che molte specie diverse di animali, tra cui i delfini, le balene, gli octopus, alcune specie di uccelli, si sono evolute diventando più intelligenti negli ultimi 50 milioni di anni. Una spiegazione plausibile può essere data dal fatto che l’intelligenza possiede un elevato grado di sopravvivenza che potrà svilupparsi in qualsiasi mondo alieno assumendo che esistano delle condizioni biologiche complesse e il giusto intervallo di tempo. Certo è che non sappiamo nulla su ciò che riguarda l’emergere delle capacità cognitive. Ma trovare un altro esempio di civiltà intelligente vorrà dire che l’Homo Sapiens non è in definitiva un fenomeno singolare. La possibilità di rispondere a questa domanda è, di fatto, una delle motivazioni fondamentali per cui sono stati concepiti gli esperimenti del SETI.

La ricerca di intelligenze extraterrestri

Illustrazione grafica di una luna aliena
Nonostante gli 'incontri ravvicinati' con esseri alieni siano argomento di fantascienza, l’idea di verificare l’esistenza di tali esseri rimane ancora molto lontana. I pianeti che orbitano attorno al Sole potrebbero ospitare qualche forma di vita aliena, come ad esempio Marte o alcune lune di Giove e Saturno, ma di sicuro sono privi di vita intelligente, almeno come noi la intendiamo. Esseri intelligenti, assumendo che esistano, devono vivere sui pianeti, o possibilmente su lune molto grandi. Questi corpi celesti sono al momento irraggiungibili e persino utilizzando i nostri vettori più veloci impiegheremmo almeno 100 mila anni prima di arrivare su Alfa Centauri, il sistema stellare più vicino. L’idea che esseri di altri mondi siano venuti sulla Terra, i cosiddetti UFO, non è considerata attendibile dalla maggior parte della comunità scientifica, nonostante circa un terzo della popolazione terrestre crede al fenomeno. La ricerca che viene condotta al SETI non si basa sul concetto delle 'visite spaziali'. Il SETI cerca un segnale, una portante, che arrivi ai radiotelescopi alla velocità della luce. Il primo esperimento del SETI fu condotto negli anni ’60 quando l’astronomo Frank Drake utilizzò il vecchio radiotelescopio del National Radio Astronomy Observatory nella West Virginia allo scopo di catturare un segnale radio che fosse trasmesso volontariamente o per caso da una civiltà intelligente distante decine di anni-luce dalla Terra. Drake utilizzò un ricevitore molto semplice ed esaminò due sistemi stellari vicini. Gli esperimenti SETI successivi hanno fatto uso di un sistema più sensibile e hanno permesso di espandere l’area di cielo da esplorare. Il progetto Phoenix, una survey di circa un migliaio di stelle, utilizzava una serie di antenne dotate di ricevitori di segnali deboli e permetteva di analizzare contemporaneamente 10 milioni di canali radio. Oggi, il SETI utilizza un insieme di 42 antenne, noto come Allen Telescope Array(ATA), che sono situate nella California del Nord. Il vantaggio di un tale strumento è che può essere utilizzato per un maggiore intervallo di tempo rispetto ai precedenti esperimenti dove il tempo di utilizzo dei vari radiotelescopi veniva suddiviso con quello dedicato per fare la consueta ricerca astronomica. L’altro gruppo del SETI è localizzato presso l’Università della California a Berkeley. Il loro progetto a lungo termine denominato SERENDIP utilizza il grande paraboloide di Arecibo, in Porto Rico. In questo caso il ricevitore esplora il cielo in maniera casuale seguendo il puntamento del radiotelescopio che è dedicato alla ricerca convenzionale. Nonostante ciò, nel corso di diversi anni, questo metodo del tutto casuale ha permesso finora di esplorare un terzo del cielo osservabile. Il ricevitore può monitorare simultaneamente più di 100 milioni di canali radio e data l’enorme mole di dati che esso produce, alcuni di essi sono stati resi pubblici per essere analizzati da singoli utenti con il proprio computer da casa (SETI@home). Approssimativamente, ad oggi sono circa 10 milioni gli utenti che hanno scaricato il programma che utilizza il salva schermo del PC per elaborare l’analisi dei dati. L’altro programma SETI a tempo pieno viene condotto da un gruppo dell’Università di Bologna presso l’Osservatorio Radioastronomico di Medicina. Storicamente, la ricerca dei segnali radio del programma SETI ha preceduto un altro esperimento che cerca, invece, brevi impulsi di luce (laser) ed è noto come SETI ottico. Ad ogni modo, le onde radio rappresentano la tecnica migliore per stabilire un eventuale contatto con qualche civiltà intelligente dato che l’energia richiesta per inviare un bit di informazione verso un altro sistema stellare è inferiore rispetto a quella richiesta da altri metodi e perciò sembra plausibile a prescindere da qualsiasi altra tecnica che eventuali intelligenze possano utilizzare per le comunicazioni interstellari. Per fare una analogia, la ruota è una antica invenzione ma l’uso che ne facciamo vale ancora oggi e lo sarà per sempre. Gli esperimenti radio del SETI non hanno ancora rivelato un segnale che sia effettivamente di origine extraterrestre. Alcuni, sia appartenenti alla comunità scientifica e non, ritengono che la mancanza di un contatto sia il frutto del fatto che non esistano altri esseri intelligenti là fuori, un concetto noto come paradosso di Fermi. Ora, mentre ciò potrebbe essere confortante per quelli che preferiscono pensare che la nostra specie sia l’unica, certamente non è una conclusione soddisfacente. È anche vero che la nostra esplorazione pluridecennale dello spazio rimane un tentativo e di fatto finora abbiamo potuto analizzare poco più di un migliaio di sistemi stellari. Nella Via Lattea ci sono centinaia di miliardi di stelle e di conseguenza è un po’ come esplorare la mega fauna africana quando invece siamo ancora al livello di un quartiere di città. Sebbene non sappiamo che tipo di segnale potrà produrre una civiltà aliena, le stime più conservative suggeriscono che per trovare una trasmissione che provi l’esistenza di intelligenze extraterrestri occorrerà esplorare almeno, se non più, un milione di sistemi stellari. Ciò si potrà nel futuro immediato grazie anche allo sviluppo dell’elettronica digitale. E non è nemmeno irragionevole pensare che gli scienziati potranno rivelare un segnale di origine extraterrestre nel giro di un ventennio o forse meno, assumendo che esisteranno le risorse per portare avanti la ricerca. Trovare fondi per il SETI è sempre stato problematico. Il programma più ambizioso, quello pianificato dalla NASA negli anni ’80 e ’90, iniziò a stento le osservazioni per poi essere cancellato dal Congresso americano verso la fine del 1993. Da allora, il SETI negli Stati Uniti è andato avanti tramite fondi di privati o è stato in parte incluso per caso in qualche programma di ricerca universitario. In più, se contiamo quante persone sono dedicate oggi alla ricerca SETI, almeno negli Stati Uniti, si trova un numero pari a poco più di una dozzina.

Evoluzione del SETI radio

Allen Telescope Array. Credit: SETI Institute
Oggi, gli esperimenti del programma SETI radio sono circa 100 trilioni di volte più efficienti rispetto ai primi esperimenti che furono realizzati negli anni ’60, grazie soprattutto alla velocità, alla sensibilità e all’intervallo di frequenze radio analizzate. Lo sviluppo sempre più rapido sia dell’elettronica analogica che di quella digitale ha permesso di accelerare le capacità esplorative del SETI. Per dare un esempio, nel 1980 i ricevitori erano in grado di monitorare 10 mila canali radio simultaneamente mentre oggi vengono analizzati fino a 10-100 milioni di canali con un incremento di un fattore mille in termini di velocità. Questo parametro è essenziale per ottenere risultati positivi. Come detto in precedenza, stime molto conservative suggeriscono che sia necessario “ascoltare” almeno un milione di sistemi stellari per riuscire a catturare un segnale di tipo intelligente. Una tecnologia digitale a basso costo, che può essere tradotta in termini di una migliore potenza di calcolo, porta immediatamente a ricevitori con più canali il che vuol dire che si richiede meno tempo per esplorare tutte le frequenze interessanti per un dato sistema che analizza il SETI. Nel caso di un insieme di antenne, un sistema di calcolo di basso costo può aumentare la velocità delle osservazioni incrementando il numero di sistemi stellari analizzati simultaneamente. Un esempio, attualmente ATA è in grado di esaminare tre sistemi stellari alla volta. Ma questo numero potrebbe essere portato a qualche centinaia o migliaia utilizzando una maggiore potenza di calcolo e contestualmente aumentando la velocità esplorativa.


Risorse attuali e future

Abbiamo detto in precedenza che oggi le risorse del SETI radio sono minime, basti pensare che gli scienziati e gli ingegneri dedicati a tempo pieno alla ricerca sono poco più di una dozzina. Nel 1992, quando la NASA lanciò il programma SETI, l’investimento annuale fu di 10 milioni di dollari, equivalente ad un millesimo dell’investimento dell’agenzia spaziale americana. Questo finanziamento iniziale permise di supportare una serie di esperimenti per due tipi di osservazioni, ossia due survey del cielo, una a bassa e l’altra ad elevata sensibilità, che ebbero lo scopo di analizzare un migliaio di stelle più vicine alla Terra. Il numero di ricercatori coinvolti nel programma fu all’epoca cinque volte maggiore rispetto a quello attuale. I fondi dedicati a tutti gli esperimenti SETI negli Stati Uniti sono ora circa il 20 percento rispetto a quelli iniziali della NASA e provengono sia da donazioni private o da attività di ricerca presso l’Università della California. Ciò rappresenta un livello inadeguato per mantenere in essere il programma di ricerca. È probabile che senza investimenti, la ricerca SETI americana possa essere sorpassata da altri progetti che stanno emergendo in Asia e in Europa, come ad esempio SKA (Square Kilometer Array) che sarà operativo a pieno regime tra qualche decennio. Ribadiamo ancora che SETI è sinonimo di esplorazione e come tutte le esplorazioni non sappiamo cosa troveremo, anche se sarà altrettanto possibile che non troveremo nulla. Ma se non cercheremo, le possibilità di successo saranno di altri. Se arriverà quel giorno, la prima evidenza di non essere soli nell’Universo sarà ricordata dai nostri discendenti come la più profonda e la più significativa di tutta la storia del genere umano, come un punto di svolta, insomma come un evento epocale.

L’interesse del pubblico

Una scena dal film "Contact" di Robert Zemeckis
L’idea dell’esistenza di civiltà extraterrestri ha un enorme impatto mediatico nel pubblico come nessun altro programma di ricerca della scienza moderna. Ricordiamo ad esempio i due grandi enigmi della cosmologia, la materia scura e l’energia scura, di cui non sappiamo ancora nulla sulla loro origine e natura (vedasi Enigmi Astrofisici). Nel 2012, la scoperta di una particella che tanto “assomiglia” al bosone di Higgs fu un po’ difficile da comprendere, se non per coloro che hanno un livello avanzato di conoscenze nel campo della fisica. L’idea della vita nello spazio “contamina”, per così dire, il senso comune attraverso la rappresentazione di creature e mostri che piovono dai cieli come li vediamo spesso nei film di fantascienza. In più, c’è da dire che la tecnica del SETI, anche se complessa, è semplice in linea di principio. Il romanzo di Carl Sagan, “Contact”, ebbe una notevole popolarità e trasmise bene il concetto scientifico che sta alla base della ricerca SETI. In altre parole, SETI è una avventura dove tutti sono coinvolti, in particolare gli studenti più giovani che si avvicinano all’astronomia, alla biologia o alle scienze planetarie. Anche se il SETI fallirà nei prossimi anni, rappresenterà comunque un grande bene che avrà lo scopo di stimolare le nuove generazioni al fine di sviluppare nuovi metodi e tecniche di ricerca. Il nostro interesse per gli “alieni”, che potremmo paragonare a quello che i giovani hanno per i dinosauri, potrebbe derivare dal punto di vista della sopravvivenza. In altre parole, potremmo immaginare gli extraterrestri come quella tribù sconosciuta che sta oltre la collina, potenziali concorrenti o compagni, ma in ogni caso qualcuno che avremmo il piacere di conoscere per saperne di più. È anche vero, però, che a volte il programma SETI genera delle provocazioni dato che il suo obiettivo, cioè trovare “gli alieni”, viene deriso e spesso ridicolizzato, una conseguenza del fatto che si confonde scienza e fantascienza. Quello che è certo è che man mano che i nostri telescopi continuano ad esplorare il cosmo, diveniamo sempre più consapevoli che la Terra è solo uno tra 100 mila miliardi di miliardi di pianeti che si muovono nelle immense vastità dello spazio. Alla fine, non sarebbe logico non domandarsi chi c’è là fuori.

Nel seguente video, Seth Shostak e Dan Werthimer del SETI spiegano i metodi scientifici e le tecniche utilizzate per la ricerca di civiltà intelligenti.

 

Astrobiology Web: Using Radio in the Search for Extraterrestrial Intelligence
SETI: A new hope for life in space

SETI: Seth Shostak testified before the Science, Space and Technology Subcommittee
Next Big Future: SETI will likely find intelligent life in the next twenty years
Daily Mail: We will find alien life in 20 years

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