lunedì 1 settembre 2014

La ricerca di esopianeti potenzialmente abitabili

Da secoli l’umanità si interroga sulla questione che riguarda l’esistenza di altre civiltà aliene: siamo gli unici esseri intelligenti che popolano l'Universo? Sin già dai tempi del Medioevo si riteneva che dovessero esistere altri mondi e, forse, qualcuno di questi avrebbe ospitato una eventuale forma di vita aliena. Oggi, grazie allo sviluppo tecnologico e al progresso scientifico, possiamo cominciare a dare delle risposte a queste domande. La scoperta di numerosi pianeti extrasolari suggerisce che il nostro sistema planetario non è l’unico. Gli esopianeti sono un fenomeno comune, almeno nella Via Lattea, anche se la maggior parte di essi sono corpi celesti giganti, tipicamente delle dimensioni di Giove, che non possono ospitare la vita come noi la conosciamo. Tuttavia, esistono sistemi planetari in cui sono stati rivelati oggetti più piccoli, cioè corpi celesti rocciosi che hanno le dimensioni dei pianeti di tipo terrestre. Nel corso dei prossimi anni, lo studio ed il perfezionamento di tutta una serie di tecniche e metodi di indagine ‘alternativi’ ci permetteranno di analizzare sempre più in dettaglio le atmosfere planetarie per scoprire se sono presenti tracce di composti chimici, come ad esempio l’anidride carbonica, l’acqua o il metano, indicatori biologici legati all'esistenza di eventuali forme di vita elementare. Forse, solo allora potremo affermare di aver trovato una nuova Terra.


Metodi di osservazione ‘classici’
Una delle maggiori difficoltà che devono affrontare i cacciatori di pianeti è data dal fatto che questi corpi celesti sono troppo piccoli e distanti per essere osservati direttamente perciò gli astronomi tentano di individuarli studiando gli effetti gravitazionali che essi hanno sulla stella ospite. Oggi, la scoperta di sistemi planetari viene attribuita sostanzialmente ai nuovi spettrometri, che permettono di dissipare la luce stellare nelle sue componenti, a migliori sensori elettronici, che registrano la luce stellare raccolta dai sistemi ottici del telescopio e ai nuovi programmi elettronici, che permettono di distinguere con grande precisione la luce stellare ed il moto causato dagli effetti gravitazionali dei corpi celesti vicini non visibili. Ma esistono delle problematiche legate ai metodi di ricerca che si basano principalmente su tre punti:
·         i pianeti non producono luce propria, tranne quando sono gioviani caldi;
·         i pianeti si trovano a grandi distanze;
·         i pianeti sono immersi nella luce della stella ospite.

Ad esempio, se ci fosse un pianeta in orbita attorno a Proxima Centauri, la stella più vicina alla Terra situata ad appena 4 anni-luce, esso risulterebbe circa 7000 volte più distante di Plutone. E' come essere seduti a Milano e guardare una farfalla notturna in prossimità di un faro nella città di Roma. I primi pianeti ad essere identificati attorno a stelle vicine sono stati rivelati indirettamente grazie agli effetti gravitazionali che essi causano sulla propria stella. Ciò ha permesso di trovare pianeti enormi, giganti di tipo Giove o “gioviani caldi”, cioè corpi celesti di grande massa, caratterizzati da periodi orbitali brevi. Questi risultati implicano che la ricerca di pianeti simili alla Terra, caratterizzati da masse più piccole e periodi orbitali più lunghi, richiede una strumentazione più sensibile e metodi di indagine più adeguati, considerando non meno importante il fatto che occorrono mesi se non anni di intense osservazioni. Il metodo della velocità radiale o spostamento Doppler è quello che avuto maggiore successo. Le misure precise della velocità o dei cambiamenti della posizione delle stelle permettono di misurare la variazione del moto della stella dovuta all'influenza gravitazionale del pianeta. Da questa informazione, gli astronomi possono ricavare alcuni parametri tra cui la massa e l'orbita del pianeta. Inoltre, queste informazioni possono essere ottenute analizzando lo spettro della luce, cioè lo spostamento Doppler delle righe spettrali che si muovono verso la parte rossa e blu dello spettro a causa del moto della stella. Nel caso in cui il pianeta sia molto grosso e si trovi vicino alla stella, quest’ultima si muoverà molto velocemente intorno al comune centro di massa. Un’altra tecnica di ricerca, denominata astrometria, si basa sui piccoli movimenti della stella dovuti alla presenza di un pianeta orbitante. Questo metodo permette di rivelare proprio la presenza di pianeti di piccole dimensioni, che orbitano attorno a sistemi stellari vicini. Il metodo di osservazione di gran lunga utilizzato, sia dal satellite Kepler ma anche da alcuni telescopi terrestri estremamente sensibili, è noto come metodo del transito. Quando un pianeta passa davanti alla stella ospite, la radiazione viene bloccata dal disco planetario che riduce la luminosità apparente dell’astro. Dal periodo e dalla profondità della curva di luce, si possono ricavare informazioni sull'orbita e sulla dimensione del pianeta. Naturalmente, pianeti più piccoli produrranno un effetto minore e viceversa. Infine, un altro metodo più sofisticato si basa su una conseguenza prevista dalla relatività generale: la curvatura dello spazio dovuta alla gravità. Di solito pensiamo che la luce viaggia nello spazio in linea retta ma se passa in prossimità di un campo gravitazionale, come ad esempio quello prodotto da una stella, essa può essere deviata dalla sua traiettoria rettilinea. Perciò, nel momento in cui un pianeta si interpone lungo la linea di vista tra la Terra e la stella ospite, il campo gravitazionale dovuto al pianeta fa deviare i raggi luminosi della stella. In questo modo, il pianeta diventa una sorta di microlente gravitazionale che focalizza i raggi luminosi della stella, incrementando temporaneamente la sua luminosità e determinando uno spostamento apparente della sua posizione.

Esempi di curve di luce misurate da Kepler con il metodo del transito nel caso di cinque esopianeti. Dal periodo e dalla profondità della curva di luce, si possono ricavare informazioni sull'orbita e sulla dimensione del pianeta. Credit: NASA/Kepler

Verso la ricerca di una nuova Terra
Una delle domande che si pongono oggi gli astronomi è la seguente: la vita è solo una questione che riguarda la Terra o la nostra Galassia è popolata di numerosi sistemi planetari dove è possibile che esistano altre civiltà intelligenti? Alcuni ricercatori hanno proposto una campagna di osservazioni sfruttando il metodo della microlente gravitazionale per cercare pianeti di tipo terrestre. Andando ad analizzare quei sistemi stellari costituiti dalle nane rosse, essi ipotizzando che ne potranno rivelare almeno 100 miliardi nella Via Lattea [1]. Questo numero potrebbe addirittura aumentare se si riuscirà a mettere insieme una rete di telescopi automatici anche di dimensioni modeste e sparse sul globo in modo da monitorare la deflessione dei raggi luminosi e incrementare così il tasso di successo nell’identificazione degli esopianeti. Anche un altro gruppo di ricercatori arriva alle stesse conclusioni dopo aver osservato Kepler-32, un sistema planetario rappresentativo che fornisce tutta una serie di indizi sulla formazione planetaria [2]. Qui, la stella ospite è una nana di tipo spettrale M, una categoria che rappresenta quasi il 75% di tutte le stelle presenti nella nostra Galassia. I pianeti osservati da Kepler, che sono simili come dimensioni alla Terra e orbitano vicini alla stella, sono tipici di una classe rappresentativa in quasi tutti i sistemi stellari composti da una stella nana di tipo spettrale M. Dunque, ciò implica che la maggior parte dei sistemi planetari ‘compatti’ hanno tutti caratteristiche simili a quelle di Kepler-32 che si può considerare una sorta di prototipo della classe. Secondo un altro studio, di questi 100 miliardi di pianeti simili alla Terra ce ne sarebbero almeno 100 milioni potenzialmente abitabili [3]. Questo dato deriva da un nuovo metodo di calcolo che ha lo scopo di esaminare quei corpi celesti che potrebbero ospitare la vita a livello microbico.

La figura mostra una rappresentazione artistica di quei pianeti potenzialmente abitabili, aggiornata al 4 Agosto 2014. Come si vede dall’immagine, la maggior parte di essi hanno dimensioni più grandi della Terra e non si è ancora certi sulla loro composizione chimica ed abitabilità. La lista è soggetta a cambiamenti man mano che vengono registrati nuovi dati dalle osservazioni. Per confronto, sono mostrati a destra la Terra, Marte, Giove e Nettuno. Credit: PHL@UPR Arecibo

La zona abitabile
La possibilità che la vita possa ancora esistere sui quei mondi che si trovano nella cosiddetta zona abitabile, cioè quella regione dello spazio attorno alla stella centrale dove ci si aspetta che l’acqua sulla superficie del pianeta esista allo stato liquido, non costituisce un fatto assodato. Alcuni scienziati hanno sviluppato un modello per determinare se gli esopianeti già identificati si trovano, o meno, nella zona abitabile [4]. Il loro lavoro si basa su un modello precedente ma offre stime più accurate su come può essere determinata la zona abitabile attorno alle stelle. Il fatto sorprendente è che i nuovi dati suggeriscono che le zone abitabili si trovino in regioni dello spazio che sono molto più distanti dalla stella. Ora questo modello sarà utilizzato per le future osservazioni spaziali che saranno condotte con i telescopi del programma Terrestrial Planet Finder in modo da guidare, per così dire, gli astronomi verso la ricerca di altri pianeti simili alla Terra. Da una analisi statistica dei sistemi stellari di massa modesta, come le nane di tipo spettrale M, è emerso che il numero di pianeti potenzialmente abitabili sembra essere molto maggiore di quanto sia stato ipotizzato in precedenza e alcuni di essi potrebbero essere presenti attorno alle stelle più vicine al Sole [5]. Gli astronomi si interessano a questo tipo di stelle per diversi motivi. Ad esempio, il periodo impiegato a descrivere un’orbita attorno alle nane-M è molto breve e questo permette ai ricercatori di acquisire una grande quantità di dati monitorando un elevato numero di orbite rispetto al caso delle stelle di tipo Sole dove la zona di abitabilità è molto più ampia. Inoltre, le nane-M sono molto più comuni e ciò vuol dire che sono più facilmente osservabili. I calcoli suggeriscono che la distanza media del pianeta più vicino potenzialmente abitabile risulta mediamente 7 anni-luce, ossia circa la metà del valore precedentemente stimato. Infatti, da una stima molto conservativa si deduce che esistono almeno otto stelle di tipo M entro 10 anni-luce, perciò ci si aspetta di trovare almeno tre pianeti di tipo terrestre nella zona abitabile. Questi risultati sono il proseguimento di uno studio condotto nel 1993 da un gruppo di ricercatori di Harvard che hanno analizzato un campione di 3987 stelle di tipo M al fine di calcolare quanti pianeti di tipo terrestre ci si aspetta nella zona abitabile. Ad ogni modo, le nuove stime che si basano sui dati di Kepler, derivano da un modello in cui è stata inserita l’informazione sull’assorbimento dell’acqua e dell’anidride carbonica, un dato che non era disponibile nel 1993. Applicando questo ed altri parametri al modello del gruppo di Harvard e utilizzando lo stesso metodo di calcolo, è stato trovato che il numero di pianeti nella zona abitabile è superiore di almeno un fattore tre. Insomma, pare che i pianeti terrestri siano molto più comuni di quanto sia stato ipotizzato in precedenza e ciò rappresenta un segnale positivo soprattutto per ciò che riguarda la ricerca della vita extraterrestre.

La figura illustra la distanza a cui si trova la zona abitabile rispetto a varie tipologie di stelle. La zona abitabile tende ad allontanarsi dalla stella ospite man mano che aumentano le sue dimensioni. 
Credit: C. Herman/Penn State University


Metodi di ricerca ‘alternativi’
La lista di Kepler è costituita attualmente da oltre 4234 candidati e solo 1816 sono stati confermati pianeti. Ciò suggerisce che gli esopianeti sono un fenomeno comune e sono presenti numerosi nella Via Lattea. Questi risultati permettono agli astronomi di avere diverse indicazioni su quali metodi e strategie utilizzare per condurre le osservazioni al fine di aumentare la percentuale di successo. Vedremo qui di seguito quali sono i metodi di ricerca cosiddetti ‘alternativi’ che i ricercatori stanno sviluppando per esplorare lo spazio verso quei sistemi stellari di maggiore interesse.

a) Stelle giovani e stelle ‘morenti’
Un gruppo di ricercatori hanno pubblicato un articolo nel quale forniscono una serie di metodi per dare la caccia ai pianeti di altre stelle [6]. Esaminando una serie di dati nuovi ed esistenti, sia sulle stelle normali che sulle nane brune che hanno una età inferiore a 300 milioni di anni, gli autori hanno individuato 144 sistemi stellari, di cui 20 sono candidati molto interessanti. La lista dei candidati viene monitorata con una campagna di osservazioni denominata Gemini’s NICI Planet-Finding Campaign e dalla Planets Around Low-Mass Stars (PALMS) survey. Analizzando gli spettri e i moti delle stelle, gli scienziati sono stati in grado di derivare l’età di ogni singola stella. Dal momento che stelle di piccola massa sono piccole e deboli, esse possono essere considerate dei buoni candidati dove si spera si possano rivelare i pianeti. Non solo, ma le stelle giovani rendono ancora più semplice l’obiettivo della ricerca in quanto ci si aspetta che i pianeti siano in formazione e perciò sono ancora caldi e luminosi. Per ricavare questa lista di candidati, i ricercatori hanno passato al setaccio, per così dire, i dati di circa 8700 stelle che sono distribuite in un raggio di 100 anni-luce rispetto al Sole. Dunque, dal momento che le stelle di piccola massa sono quelle più comuni, ci si aspetta che la maggior parte dei pianeti si trovino in questi sistemi stellari. L’individuazione delle versioni più giovani di queste stelle risulta di fondamentale importanza per capire il censimento galattico dei pianeti extrasolari. Le stelle si comportano come degli indicatori perciò se esisteranno dei gioviani caldi quasi certamente saranno individuati.

Ma anche le stelle che si trovano nella fase finale della loro evoluzione potrebbero ancora ospitare dei pianeti sui quali la vita, se esiste, potrebbe essere rivelata con le future missioni spaziali. Queste considerazioni incoraggianti derivano da una serie di studi sui pianeti di tipo terrestre che orbitano attorno alle nane bianche. Alcuni teorici hanno concluso che si potrebbe rivelare l’ossigeno presente nelle atmosfere planetarie molto più facilmente rispetto al caso dei pianeti che orbitano, invece, attorno alle stelle di tipo solare [7]. Quando una stella come il Sole termina il suo ciclo vitale, spazza nel mezzo interstellare gli strati più esterni dando luogo ad una nebulosa planetaria e si lascia dietro un nucleo denso, caldo e collassato, cioè il prodotto finale chiamato nana bianca. Queste stelle in fin di vita hanno le dimensioni della Terra. La stella si raffredda lentamente e si indebolisce nel corso tempo anche se può trattenere ancora a lungo del calore residuo che è ancora in grado di riscaldare un pianeta che orbiti ad una distanza minima anche per diversi miliardi di anni. Dato che una nana bianca è molto più piccola e più debole del Sole, un pianeta per essere considerato potenzialmente abitabile dovrebbe trovarsi molto vicino alla stella affinchè l’acqua si trovi sulla superficie allo stato liquido. Inoltre, questo pianeta dovrebbe orbitare attorno alla stella una volta ogni 10 ore e trovarsi ad una distanza di circa 1,5 milioni di chilometri. Ora, secondo la teoria dell’evoluzione stellare, prima che la stella diventi una nana bianca, essa passa attraverso la fase di gigante rossa inglobando e distruggendo qualsiasi pianeta che si trovi nel suo raggio d’azione. Di conseguenza, un pianeta potrebbe migrare nella zona abitabile dopo che la stella sia evoluta nella fase di nana bianca. Il pianeta potrebbe comunque formarsi nuovamente dall’accrescimento di polveri e gas, cioè sarebbe un pianeta di ‘seconda generazione’, oppure potrebbe spostarsi verso l’interno dalle regioni esterne più distanti. Insomma, se esistono pianeti nella zona abitabile delle nane bianche dovremmo prima o poi trovarli. L’abbondanza di elementi pesanti sulla superficie delle nane bianche implica che una frazione significativa di queste stelle collassate possiede pianeti rocciosi. Gli scienziati stimano che una campagna di osservazioni delle 500 nane bianche più vicine potrebbe darci alcuni indizi sulla presenza di una o più terre potenzialmente abitabili. La miglior strategia per rivelare questi pianeti consiste nel metodo del transito, quando cioè la luce di una stella si indebolisce nel momento in cui un pianeta passa davanti al disco stellare. Dato che una nana bianca ha circa le dimensioni della Terra, un pianeta di tipo terrestre dovrebbe bloccare una maggiore frazione di luce e produrre così un segnale caratteristico della sua presenza. Ma ancora più importante è il fatto che gli astronomi sono in grado di studiare le atmosfere dei pianeti che transitano davanti al disco della propria stella. Infatti, quando la luce della nana bianca brilla attraverso l’anello di luce che circonda il disco planetario, l’atmosfera assorbe parte della radiazione. Durante la fase del transito si producono delle ‘impronte digitali chimiche’ da cui è possibile capire se l’atmosfera contiene vapore acqueo o addirittura bioindicatori dati dalla presenza di ossigeno. Sulla Terra, sappiamo che l’atmosfera viene continuamente rifornita di ossigeno attraverso la fotosintesi dovuta alle piante. Ma se un giorno tutte le forme di vita cessassero di esistere, la nostra atmosfera diventerebbe immediatamente priva di ossigeno che successivamente si dissolverebbe negli oceani e di conseguenza ossiderebbe la superficie terrestre. Il telescopio spaziale James Webb (JWST), che sarà lanciato in orbita entro la fine di questo decennio, promette di essere un buon strumento d’indagine per rivelare la presenza di gas nelle atmosfere aliene. Gli astronomi hanno simulato uno spettro sintetico sulla base di ciò che JWST potrebbe vedere analizzando l’atmosfera di un pianeta extrasolare che orbita attorno ad una nana bianca. I dati suggeriscono che sia l’ossigeno che il vapore acqueo potrebbero essere rivelati con sole poche ore di osservazione. Un altro studio, però, ha dimostrato che è molto probabile che un pianeta abitabile vicino si trovi attorno ad una nana rossa. Infatti, poichè la nana rossa, nonostante sia più piccola e più debole del Sole, è molto più brillante e più grande di una nana bianca, il suo alone di luce potrebbe sovrastare il debole segnale dell’atmosfera di un pianeta che orbita attorno ad essa. Il telescopio spaziale JWST sarebbe perciò costretto ad osservare centinaia di ore di transito e sperare di catturare la composizione chimica dell’atmosfera planetaria. Comunque sia, gli scienziati sono convinti che il pianeta più vicino e per il quale potremo essere in grado, un giorno, di verificare una eventuale presenza di vita aliena si troverà molto probabilmente attorno ad una nana bianca.

b) La relatività speciale
La ricerca di nuovi mondi rappresenta una sfida impegnativa perché stiamo parlando di oggetti molto piccoli, deboli, e vicini alle loro stelle. Abbiamo detto in precedenza che le due tecniche più promettenti utilizzano il metodo della velocità radiale o spostamento Doppler, che si basa sull’oscillazione delle stelle, ed il metodo del transito, che sfrutta la variazione di luminosità della stella ospite dovuta al passaggio dei pianeti davanti al disco stellare. Alcuni ricercatori hanno scoperto di recente un gioviano caldo grazie ad un nuovo metodo che si basa sulla relatività speciale [8]. Grazie all’elevata qualità dei dati forniti dal satellite Kepler, sono stati misurati effetti molto piccoli della luminosità della stella al livello di poche parti per milione. Sebbene Kepler sia stato progettato per trovare pianeti con il metodo del transito, Kepler-76b è stato scoperto utilizzando una tecnica che si basa su tre effetti, molto deboli da misurare, che si verificano contemporaneamente quando un pianeta orbita attorno alla stella. Il primo di questi è noto con il termine di beaming” relativistico, un effetto previsto dalla relatività speciale che causa un aumento di luminosità quando la stella si muove verso l’osservatore, soggetta alla gravità del pianeta, e viceversa quando si allontana. Il secondo effetto tiene conto della forma allungata che la stella assume a causa delle forze di marea dovute al pianeta in questione. La stella appare più luminosa quando la osserviamo di lato, poichè offre una maggiore superficie visibile, e più debole quando il pianeta la attraversa. Il terzo effetto è dovuto alla luce stellare riflessa dal pianeta stesso. I dati di Kepler suggeriscono che il pianeta transita davanti alla sua stella, il che fornisce una ulteriore conferma della sua scoperta. Il cosiddetto “pianeta di Einstein” è un gioviano caldo e orbita ogni 1,5 giorni attorno ad una stella di classe spettrale F che si trova a circa 2000 anni-luce dalla Terra, nella costellazione del Cigno. La sua dimensione è circa il 25% maggiore rispetto a quella di Giove e la sua massa è circa il doppio. Inoltre, il pianeta ha un moto di rivoluzione sincrono, cioè mostra sempre lo stesso lato alla stella, proprio come nel caso della Luna con la Terra, e la sua temperatura superficiale raggiunge i 2000 gradi Celsius. Nonostante questo metodo non sia ancora sufficientemente adeguato per la ricerca di nuove terre, esso comunque offre agli astronomi un’occasione unica perchè da un lato non necessita di spettri ad alta precisione e dall’altro non richiede un allineamento perfetto del pianeta con la stella ospite.

c) Oceani su mondi alieni
Rivelare l’acqua sulla superficie di un pianeta sta diventando una priorità dato che, almeno per quanto ne sappiamo, essa rappresenta un elemento essenziale per la sua abitabilità. Uno studio ha esaminato la possibilità che la riflettività della superficie di un mondo alieno possa essere interpretata come una chiara evidenza della presenza di oceani [9]. Gli scienziati stanno sviluppando tutta una serie di metodi per rivelare la presenza di acqua sulla superficie di un esopianeta, visto ormai il grande numero di oggetti che orbitano nella cosiddetta zona abitabile dove si ritiene che l’acqua possa esistere allo stato liquido. Uno di questi metodi si basa sulla riflessione speculare, nota anche come “luccichio”, simile a quello dovuto alla riflessione della luce solare sulla superficie di un lago o di un mare, che può determinare una riflettività apparente nota come albedo. Secondo questo metodo, non è necessario osservare l’intero disco del pianeta, cioè quando esso riflette la luce in maniera simile a quella che viene riflessa dal nostro satellite naturale durante la fase di Luna piena, bensì è possibile osservare la riflettività della superficie anche durante una fase parziale della sua orbita, per esempio durante la fase crescente. In questo caso ci si aspetta che l’albedo aumenti e perciò potrebbe rappresentare un segnale della reale presenza di acqua liquida sulla superficie del pianeta. Inoltre, un altro gruppo di ricercatori hanno condotto una serie di studi allo scopo di capire l’importanza degli oceani come fattore fondamentale per caratterizzare le condizioni climatiche sui pianeti simili alla Terra [10]. Finora, la maggior parte delle simulazioni numeriche che riproducono le condizioni di abitabilità principalmente sui pianeti terrestri si sono focalizzate sull’analisi delle atmosfere planetarie. Ma la presenza degli oceani sulla superficie di un esopianeta può rappresentare un parametro significativo per permettere l’esistenza di un clima accettabile. In tal senso, i ricercatori hanno realizzato una serie di simulazioni che riproducono la circolazione oceanica di un ipotetico pianeta simile alla Terra in modo da studiare come la rotazione planetaria influenzi il trasporto di calore in presenza degli oceani. Uno degli aspetti più importanti è dato dal fatto che il calore trasportato dagli oceani avrebbe un maggiore impatto sulla distribuzione della temperatura sulla superficie del pianeta e potrebbe, in linea di principio, permettere l’esistenza di aree potenzialmente abitabili. Ad esempio, Marte si trova nella zona abitabile ma non possiede oceani e ciò determina escursioni di temperatura di circa 100 gradi centigradi. Insomma, sappiamo che gli oceani possono rendere più stabile il clima di un pianeta e perciò tenerne conto nei modelli ci permetterà di ricavare preziosi indizi sulle condizioni di abitabilità dei mondi alieni.


d) Impulsi laser alieni
Uno degli argomenti attuali della ricerca condotta dall’Istituto SETI (Search for Extra Terrestrial Intelligence) riguarda la possibilità che qualche civiltà intelligente possa inviare nello spazio segnali laser ad impulsi. Questo tipo di approccio potrebbe sembrare arcaico, un pò come quando gli uomini del XVIII secolo utilizzavano per comunicare, si fa per dire, la riflessione della luce solare mediante gli specchi oppure, successivamente, i telegrafi per comunicare da una nave ad un’altra. Di fatto, l’idea di utilizzare i segnali luminosi per stabilire un contatto cosmico non è molto vecchia. Verso la metà del XIX secolo, sia il matematico e astronomo tedesco Carl Gauss che l’inventore francese Charles Cros suggerirono l’utilizzo di lanterne e specchi per attirare l’attenzione dei “marziani”. Oggi, con le tecniche più moderne, diventa affascinante l’idea di far uso di impulsi laser di estrema intensità da trasmettere nello spazio. In tal senso, alcuni scienziati del Lawrence Livermore National Laboratory hanno costruito un laser capace di inviare impulsi con una potenza pari a 1000 trilioni di Watt, nonostante gli impulsi siano di breve durata. Lo strumento si chiama Nova e non è certo il puntatore laser che utilizziamo per le nostre presentazioni. Immaginiamo, per un istante, di installare il laser Nova su uno specchio di 10 metri e di focalizzarne il suo fascio inviandolo nello spazio verso una stella che si trovi ad una distanza di circa 50 anni-luce. Si può calcolare, facilmente, che ogni impulso rilascerà circa 10 fotoni per metro quadrato che arriveranno sulla superficie degli eventuali esopianeti. Se confrontiamo questo valore con la luminosità emessa dal Sole in tutte le direzioni, che è di circa 4x1026 Watts, si trova che anche la luce solare raggiunge la superficie di quei pianeti, seppur distanti, con un valore pari a circa 250 milioni di fotoni per secondo. Quest’ultimo valore sembrerebbe sminuire la portata del nostro super laser ma certamente non è così se consideriamo un intervallo di tempo dell’ordine del trilionesimo di secondo quando arriva l’impulso. In altre parole, quel breve impulso laser fornisce 8 fotoni per metro quadrato contro un valore di 0,00025 fotoni per metro quadrato dovuti alla luce solare. Questo vuol dire che per un brevissimo intervallo di tempo, l’impulso laser supera la luminosità del Sole di circa un fattore 30.000! Dunque, cosa fanno i ricercatori del SETI ottico? Essi puntano i loro strumenti verso stelle vicine, in termini di distanza, e contano i fotoni che arrivano durante brevissimi intervalli di tempo, che sono tipicamente dell’ordine del miliardesimo di secondo. Il flusso di fotoni che arriva dalla stella, precedentemente selezionata, causerà un picco, o due, nel conteggio dei fotoni, non più di questo. Se, però, qualche civiltà aliena ha costruito uno strumento simile al nostro e decide di puntarlo nello spazio, potrebbe accadere, al contrario, di registrare dei picchi di intensità nel segnale che stiamo analizzando. Insomma, potremmo avere a che fare con qualche civiltà intelligente che sta trasmettendo una serie di impulsi laser proprio come noi ce li immaginiamo. Sarebbe un modo fantastico di stabilire un contatto cosmico. Oggi, questo tipo di esperimenti sono attualmente condotti da diversi ricercatori del SETI e da alcune università. Essi hanno già analizzato alcune centinaia di stelle alla ricerca di impulsi luminosi alieni e i dati sono in corso di elaborazione. Si spera, così, di avere un risultato significativo nei prossimi anni che dia credito a questa tecnica in modo da poterla ottimizzare per i futuri esperimenti.
e) L’illuminazione delle città extraterrestri
Nella corsa alla ricerca di intelligenze extraterrestri, gli astronomi stanno cercando di rivelare da un lato segnali radio con il programma SETI e dall’altro brevissimi impulsi laser artificiali, come abbiamo spiegato nel paragrafo precedente. C’è, però, chi suggerisce un metodo alternativo per rivelare la presenza di una eventuale civiltà aliena: l’illuminazione cittadina [11]. Così come i metodi utilizzati dal SETI si basano sull’assunzione secondo la quale eventuali civiltà aliene potrebbero utilizzare tecnologie di tipo terrestre, anche questa ipotesi prevede che esseri intelligenti siano evoluti al punto tale da aver costruito una rete per l’illuminazione urbana. Naturalmente, per rivelare una tale luce artificiale occorrerà osservare in dettaglio ogni variazione di luminosità proveniente dalla superficie del pianeta man mano che esso orbita attorno alla sua stella ed in particolare quando si trova durante la fase di ombra. Per fare ciò, saranno necessari telescopi di nuova generazione anche se questa tecnica potrà essere verificata osservando, ad esempio, come apparirebbero le luci cittadine del nostro pianeta da un satellite che si trova nelle regioni più estreme del Sistema Solare. Si calcola che i telescopi attualmente disponibili sono in grado di rivelare la luce di una metropoli come Tokyo dalla distanza a cui si trova la cosiddetta fascia di Kuiper, cioè quella regione dello spazio interplanetario al di là di Plutone dove si trovano i corpi minori del Sistema Solare. Insomma, si tratta di una tecnica di individuazione molto difficile ma il principio della Scienza è quello di trovare un metodo che ci permetta di applicarlo per avere un risultato scientifico. Forse un giorno saremo in grado di rivelare le luci di una città aliena che si trova su un altro mondo? Chi lo sa, non ci rimane al momento che attendere ed osservare attentamente.



Se una civiltà aliena costruisse una rete di illuminazione cittadina, quelle luci potrebbero essere osservate dai telescopi di nuova generazione. Ciò potrebbe rappresentare un nuovo metodo per rivelare l’esistenza di civiltà extraterrestri nella nostra galassia. Credit: D.A. Aguilar/Center for Astrophysics - Harvard

f) Le atmosfere planetarie
Di recente è stato sviluppato uno strumento d’indagine che non richiede grossi telescopi o satelliti in orbita. Si tratta di una tecnica che utilizza un telescopio ad infrarossi di piccole dimensioni per identificare molecole organiche nell’atmosfera di un esopianeta gioviano che si trova a circa 63 anni-luce [12]. Questo metodo permetterà, in futuro, di studiare le atmosfere planetarie che possiedono molecole legate alla presenza di eventuali forme biologiche accelerando così la ricerca di pianeti simili alla Terra. Nel 2007, gli astronomi puntarono l’Infrared Telescope Facility (ITF), un telescopio di 3 metri della NASA situato a Mauna Kea nelle Hawaii, nella direzione della costellazione della Volpetta dove si trova il pianeta gioviano HD 189733b. Il suo periodo di rivoluzione è di 2,2 giorni e la sua stella ospite, molto più piccola del nostro Sole, fornisce al pianeta una temperatura superficiale di oltre 1500 gradi Celsius. Facendo uso dello spettrografo SpeX, i ricercatori hanno ricavato la composizione chimica dell’atmosfera di HD 189733b trovando tracce di diossido di carbonio e metano, un risultato straordinario e senza precedenti se si pensa che è stato ottenuto con un osservatorio situato a Terra e non nello spazio. Inoltre, durante le osservazioni, i ricercatori hanno trovato una forte emissione nell’infrarosso associata al metano. Questo dato potrebbe indicare la presenza di qualche attività forse correlata alla radiazione ultravioletta proveniente dalla stella che riscalda gli strati superiori dell’atmosfera del pianeta. Più recentemente, nel 2013, un gruppo di ricercatori dell’ESO hanno trovato tracce di molecole di acqua nell’atmosfera del pianeta grazie ad una serie di osservazioni realizzate con il Very Large Telescope (VLT) dell’ESO, dando così credito ad una tecnica alternativa che permetterà agli astronomi di cercare l’acqua su altri mondi in maniera efficiente e senza far uso di telescopi spaziali [13]. Di solito, gli astronomi individuano la presenza di un pianeta misurando la sua influenza gravitazionale che esso produce sulla stella causando una attrazione minima che la fa muovere su un orbita stretta con una velocità di qualche chilometro all’ora. Questo movimento determina uno spostamento minimo, avanti e indietro, delle righe dello spettro stellare, un effetto noto come spostamento Doppler, seguendo l’oscillazione della stella. Ora, i ricercatori hanno invertito la tecnica misurando l’effetto gravitazionale che la stella produce sul pianeta. In questo modo, gli effetti sul pianeta diventano molto più grandi e il suo moto orbitale che ne risulta è di 400.000 Km/h. Le misure sono state ottenute analizzando lo spostamento Doppler delle righe dell’acqua osservate nello spettro del pianeta man mano che orbita attorno alla stella. Nonostante la velocità sia più elevata rispetto a quella della stella, essa risulta quasi un migliaio di volte più debole e ciò complica le misure. Ad ogni modo, gli astronomi sono stati in grado di realizzare le misure della riga dell’acqua grazie allo strumento CRIRES (CRyogenic high-resolution InfraRed Echelle Spectrograph) installato sul VLT. Utilizzando sempre la stessa tecnica, gli scienziati hanno poi individuato nell’atmosfera del pianeta altre molecole, come ad esempio quella più semplice del monossido di carbonio, anche se si tratta della prima volta per cui è stata identificata la molecola più complessa dell’acqua. La rivelazione di queste molecole apre una nuova finestra verso lo studio della composizione chimica delle atmosfere planetarie, incluse quelle del metano e del biossido di carbonio, che sono gli ingredienti chiave da cui possiamo ricavare preziosi indizi sulla storia evolutiva del pianeta. L’esistenza di eventuali bioindicatori potrà essere dedotta dalla presenza di gas che si sono accumulati nel corso del tempo nell’atmosfera planetaria e che potranno essere rivelati con l’utilizzo di telescopi sempre più sofisticati [14]. Un altro metodo ‘alternativo’ che aiuterà gli astronomi a rivelare segni di eventuali forme di vita biologica consiste nell’identificare la molecola organica più semplice, cioè il metano, un idrocarburo detto anche impropriamente gas di città [15]. Questa tecnica permetterà di capire, per la prima volta, se esistono molecole ad alta temperatura, ben al di sopra di quelle terrestri, fino a 1220°C. Gli astronomi saranno così in grado di analizzare lo spettro delle atmosfere planetarie per vedere come esse assorbono la luce stellare a varie frequenze. Quindi, il passo successivo sarà quello di confrontare i dati ottenuti con il modello per identificare le varie molecole. La convinzione che un tale metodo d’indagine possa funzionare proviene dalla lezione che abbiamo imparato nel corso degli ultimi dieci anni relativamente allo studio e all’analisi delle atmosfere, anche se esistono delle limitazioni che non ci permettono ancora di identificare composti molecolari o la presenza di nubi perchè non disponiamo ancora di un potere esplorativo tale da distinguere la presenza dei gas nell’atmosfera senza effettuare osservazioni dirette della superficie. Ad ogni modo, questa tecnica apre nuove prospettive soprattutto per la ricerca di molecole organiche simili a quelle che hanno preceduto l’evoluzione della vita sulla Terra. Lavorando in sinergia con i telescopi spaziali, quali Hubble e Spitzer, e quelli di nuova generazione, come il James Webb Space Telescope o lEuropean Extremely Large Telescope (E-ELT), questo metodo diventerà di fondamentale importanza per rivelare bioindicatori, come ad esempio l’ossigeno, in quelle atmosfere planetarie che caratterizzano quei corpi celesti simili alla Terra.



La figura illustra le fasi principali che hanno permesso agli astronomi di ottenere lo spettro del pianeta gioviano HD 189733b. La composizione chimica dell’atmosfera presenta tracce di diossido di carbonio (CO2), metano (CH4) e acqua (H2O). Credit: ITF/Hubble/Spitzer


g) L’inquinamento atmosferico delle città aliene
Mai come oggi, l’umanità si trova “vicina” alla soglia della rivelazione di segni di vita extraterrestre su altri mondi. Abbiamo detto in precedenza che lo studio delle atmosfere planetarie può rappresentare un ottimo strumento d’indagine per identificare alcuni gas come l’ossigeno ed il metano che possono esistere solamente se vengono riforniti da forme di vita semplici, come ad esempio i microrganismi. E le civiltà avanzate? Potrebbero produrre dei segni identificativi della loro presenza? Forse sì, se viene immesso nell’atmosfera materiale inquinante. In tal senso, uno studio recente condotto da alcuni teorici dimostra come sotto certe condizioni potremmo essere in grado di rivelare segni di inquinamento atmosferico, offrendo così un nuovo approccio verso la ricerca di forme di vita di tipo intelligente [16]. Il telescopio spaziale James Webb (JWST) potrebbe essere in grado di rivelare due tipi di clorofluorocarburi (CFC), cioè quei composti chimici capaci di distruggere l’ozono che sono utilizzati in alcuni solventi ed aerosol. Secondo alcune ipotesi, una civiltà aliena intelligente potrebbe inquinare intenzionalmente la propria atmosfera fino a livelli almeno 10 volte superiori rispetto a quelli presenti sulla Terra causando così un riscaldamento globale che determinerebbe un aumento della temperatura del pianeta che altrimenti sarebbe troppo bassa per permettere l’esistenza di eventuali forme di vita. Tuttavia, rivelare la presenza di inquinanti su pianeti di tipo terrestre che orbitano attorno a stelle nane richiede l’utilizzo di strumenti che vanno ben al di là di JWST. Dunque, se da un lato la ricerca di CFC potrebbe fornirci preziosi indizi sull’esistenza di civiltà intelligenti, dall’altro essa ci permetterebbe di rivelare i resti di una civiltà avanzata che si è autodistrutta. Alcuni inquinanti persistono nell’atmosfera terrestre su tempi scala dell’ordine di 50 mila anni, mentre altri durano solo 10 anni. Perciò, rivelare molecole che appartengono alla categoria del ciclo più lungo e non trovarne quelle della categoria del ciclo più breve potrebbe implicare il fatto che le loro sorgenti si sono ormai estinte. In tal caso, si potrebbe ipotizzare che gli alieni si son fatti “furbi” e hanno ripulito, per così dire, il loro ambiente vitale. Oppure, in uno scenario ancora più oscuro, ciò potrebbe servire come una sorta di monito dei pericoli a cui potrà incorrere nel futuro l’umanità se non diverremo noi stessi “buoni amministratori” del nostro pianeta.

h) Laser robotici
Un gruppo di astronomi stanno sperimentando il primo laser robotico ad ottica adattiva (Robo-AO) e con un potere esplorativo confrontabile con quello del telescopio spaziale Hubble per studiare migliaia di sistemi stellari alla ricerca di nuovi esopianeti [17]. La tecnica dell’ottica adattiva viene utilizzata dai telescopi terrestri per rimuovere gli effetti di sfocatura delle immagini a causa della turbolenza atmosferica. Il successo del laser robotico sta nella sua efficienza perchè permette di osservare centinaia di oggetti candidati in una singola notte rispetto ai sistemi convenzionali. Finora, il sistema Robo-AO è stato utilizzato per realizzare oltre tredicimila osservazioni da cui sono emersi risultati sorprendenti. Gli astronomi hanno identificato particolari esopianeti giganti, appartenenti alla categoria dei gioviani caldi, che si muovono su orbite strette e sono presenti in sistemi stellari binari con un numero quasi tre volte superiore rispetto agli altri pianeti. Questi sistemi planetari unici sono interessanti per capire come hanno origine i pianeti ma anche per ricavare preziosi indizi sull’esistenza di eventuali forme di vita aliena. Oggi, le osservazioni condotte col sistema Robo-AO, che copre una lista di 715 candidati identificati dal satellite Kepler, rappresentano la campagna scientifica più grande mai realizzata con il sistema dell’ottica adattiva. Ora, il passo successivo sarà quello di estendere le osservazioni a 4000 oggetti che sono nella lista dei candidati di Kepler e anche a quelli che di volta in volta saranno identificati dalla prossima missione K2 di Kepler.

Conclusioni
Nonostante la ricerca di nuove terre abitabili rappresenti oggi una priorità, tuttavia c’è chi è convinto che eventuali forme di vita aliena potrebbero svilupparsi o essere presenti su un’altra categoria di pianeti, molto diversi da quelli terrestri [18]. Questi mondi alieni detti “super abitabili”, completamente ricchi di acqua, “termostati” ideali per climatizzare la temperatura del pianeta e dotati di uno scudo magnetico adeguato per impedire le radiazioni cosmiche, avrebbero una massa due o tre volte superiore rispetto a quella della Terra e potrebbero essere decisamente più vecchi in termini di età. Dovremmo forse cambiare la nostra prospettiva di ricerca non focalizzandoci solamente verso l’esplorazione di pianeti terrestri? Infatti, un’altro studio mostra come sia altrettanto possibile che anche le esolune possano ospitare ambienti potenzialmente abitabili. Sebbene non siano state ancora identificate, gli scienziati sono convinti che ce ne devono essere tante, addirittura molto di più rispetto agli esopianeti [19]. Oggi, mai come prima, abbiamo l’abilità tecnica ed intellettuale di scoprire e classificare nuovi mondi alieni definendo, in qualche modo, lo stesso significato di abitabilità. Nonostante ciò, il sogno di osservare pianeti simili alla Terra comincia a realizzarsi e l'idea che il nostro Sistema Solare non sia unico si è spostata dalla speculazione filosofica di un tempo alla realtà quotidiana. Queste scoperte hanno il potenziale di spostare il pensiero umano sullo stesso piano di ciò che la rivoluzione copernicana produsse nel XVI secolo. Insomma, siamo solo all’inizio di una grande avventura e le speranze sono tante perciò non ci rimane altro che perseguire il nostro obiettivo che, un giorno, potrà finalmente dare la risposta alla domanda di sempre: siamo soli?


Referenze

[1] Extending the Planetary Mass Function to Earth Mass by Microlensing at Moderately High  Magnification

[2] Characterizing the Cool KOIs IV: Kepler-32 as a prototype for the formation of compact planetary systems throughout the Galaxy

[3] Assessing the Possibility of Biological Complexity on Other Worlds, with an Estimate of the Occurrence of Complex Life in the Milky Way Galaxy

[4] Habitable Zones Around Main-Sequence Stars: New Estimates

[5] Earth-sized planets in habitable zones are more common than previously thought

[6] Identifying the young low-mass stars within 25 pc. II. Distances, kinematics and group membership

[7] Detecting bio-markers in habitable-zone earths transiting white dwarfs

[8] BEER analysis of Kepler and CoRoT light curves: I. Discovery of Kepler-76b: A hot Jupiter with evidence for superrotation

[9] A false positive for ocean glint on exoplanets: The latitude-albedo effect

[10] The Importance of Planetary Rotation Period for Ocean Heat Transport

[11] Detection Technique for Artificially-Illuminated Objects in the Outer Solar System and Beyond

[12] Methane present in an extrasolar planet atmosphere
[13] Detection of water absorption in the dayside atmosphere of HD 189733 b using ground-based high-resolution spectroscopy at 3.2 microns



[15] The spectrum of hot methane in astronomical objects using a comprehensive computed line list

[16] Detecting industrial pollution in the atmospheres of earth-like exoplanets

[17] High-efficiency Autonomous Laser Adaptive Optics
[18] Superhabitable World
[19] The Effect of Planetary Illumination on Climate Modelling of Earthlike Exomoons





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